TWR la (psico)analisi di Stranger Things: una lettera d'amore agli anni '80

Sono lontani i tempi in cui la TV d’estate era fatta di repliche de I Ragazzi della Terza C, film di Franco e Ciccio e, a limite, qualche cult trasmesso tra I Bellissimi di Rete 4. Oggi il palinsesto televisivo e quello cinematografico non risentono più della calura estiva e vanno dietro alla programmazione statunitense, e così in questo luglio 2016 possiamo goderci serie TV di qualità come Preacher (inspiegabilmente non ancora acquistata da nessun network italiano) e l’ultima arrivata su Netflix: Stranger Things.

Devo premettere che, quando il mese scorso mi sono imbattuto nel primo trailer di Stranger Things, dietro qulla facciata che strizzava l’occhio ai nostalgici anni ’80 come il sottoscritto e che mi aveva discretamente incuriosito, temevo si celasse un’altra bufala in stile Wayward Pines: promesse di misteri misteriosamente misteriosi ma nessuna sostanza… e invece no.

Stranger Things è una lettera d’amore agli anni ’80, all’infanzia, al cinema di Spielberg ed allo Stephen King di Stand By Me ed It. La nuova produzione Netflix – creata, e per larga parte diretta, dai finora pressoché sconosciuti gemelli Duffer – trabocca di richiami ad icone fantasy e sci-fi che sono entrate di diritto nella cultura pop degli ultimi 20-30 anni, ma non pensate che sia un citazionismo fine a se stesso. É un robusto intreccio volto a creare un’ambientazione incredibilmente evocativa, il che, per un 30-40 enne di oggi, equivale a farsi trasportare con un flusso canalizzatore direttamente alle fondamenta della propria infanzia. Proprio per questo motivo, il gradimento di Stranger Things è direttamente proporzionale a quanto siete vicini a questa fascia di età. Io sono un classe ’79, fate voi….

Il primo ceffone nostalgico arriva subito dopo aver premuto play. Dei bambini giocano a Dungeons & Dragons in cantina e, poco dopo, li ritroviamo a scorrazzare in bici in un piccolo centro cittadino: Elliot, il protagonista di E.T., si materializza subito nella nostra mente.

Uno dei ragazzi, Will, scompare misteriosamente e gli altri membri del gruppo si adoperano per ritrovarlo. E qui la nostalgia ci assesta un secondo, potente, ceffone: i bambini protagonisti di Stranger Things, infatti, altri non sono che i Goonies!

Mike è il ragazzino logorroico di cui apprendiamo ben presto anche le dinamiche familiari, ovvero Mickey.
Lucas è il testardo genietto del gruppo e la sua “vestizione” à la Rambo nel finale di serie non può non far tornare alla mente Data.
Dustin è il tipo buffo ma dal cuore grande, e cioè Chunk.
Ma i Goonies, obietterete voi, erano quattro: a rimpiazzare il quarto membro della comitiva ci pensa Undici, una bambina con poteri psichici che è un incrocio tra Super Vicky ed un precog di Minority Report (il cinema di Spielberg torna a fare capolino).

Gli easter egg sono incalcolabili: ci sono i poster de La Casa di Raimi, de Lo Squaloma dai, di nuovo Spielberg? – e de La Cosa di Carpenter (che viene anche mostrata in uno dei momenti di maggior splendore splatter in una di quelle belle TV di una volta col tubo catodico), c’è la sigla dei Masters con il prinicpe Adam che si trasforma in He-Man, c’è Tolkien, c’è un manuale usurato di Dungeons & Dragons, ci sono gli X-Men, un pupazzetto di Yoda e miliardi di riferimenti a Star Wars. Questo per limitarci alle citazioni anni ’80 (che comunque non finiscono qui), perché poi c’è una dimensione parallela spiegata con un foglio di carta ripiegato su se stesso ed una penna come i buchi neri di Interstellar, c’è un mostro che sembra un clicker di uno dei videogame di maggior successo degli ultimi tempi, The Last of Us… e potrei andare ancora avanti ma il concetto è chiaro: Stranger Things è un gustoso frappé di cultura pop.

L’ottima caratterizzazione dell’ambientazione sta anche in altri dettagli: il riuscitissimo tema musicale rigorosamente synth-pop, il font dei titoli di testa, il poster promozionale realizzato con lo stile delle celebri locandine di Drew Struzan.

 

E poi c’è un’altra mossa furbetta della produzione: i membri più famosi del cast, ovvero Matthew Modine e Winona Ryder, sono due che, dopo essere stati delle superstar tra gli anni ’80 ed i primi anni ’90 (con Birdie e Full Metal Jacket il primo, e con Beetlejuice, Edward Mani di Forbice e Giovani, Carini e Disoccupati la seconda), hanno visto sfiorire le loro carriere nel decennio successivo. Motivo per il quale anche loro due vengono percepiti dallo spettatore come due personaggi profondamente radicati in quell’epoca. A questo proposito, però, aggiungo una personalissima considerazione: Winona Ryder, dal punto di vista recitativo, è stata la meno credibile di tutto il cast. Il suo personaggio ricorda molto il Richard Dreyfuss di Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo (Spielberg ti fischiano le orecchie?) ed avrebbe dovuto essere il ruolo più drammatico di tutto il serial, ma lei non mi ha mai trasmesso il pathos di una madre disperata alla ricerca del figlio. Al contrario, quella sua espressione stolida e stupita con la bocca perennemente spalancata e lo sguardo monocorde le davano una vena comedy decisamente fuori contesto. Sarebbe stata perfetta in Orange Is The New Black piuttosto.

I bambini del cast, invece, meritano tutti la lode così come la merita David Harbour, ottimo interprete di uno dei personaggi meglio riusciti: lo sceriffo.

Grazie a tutti questi elementi Stranger Things è più anni ’80 di un film degli anni ’80. Un’operazione, quella di omaggiare il cinema di genere dell’epoca, che nel 2011 fu portata avanti anche da JJ Abrams con il validissimo Super 8 (prodotto da Spielberg, aridaje). Ma la serie Netflix centra il bersaglio anche meglio del film di Abrams, la decompressione narrativa resa possibile in 8 episodi giova enormemente alla caratterizzazione dei personaggi e degli ambienti, creando un microcosmo pulsante che è il vero punto di forza di Stranger Things. Questo citazionismo così manifesto e sfacciato, tra l’altro, non intacca la godibilità della serie anche perché la sceneggiatura è solida, scorrevole e godibilissima, e culmina con un finale estremamente soddisfacente che si mantiene aperto lasciando così quel retrogusto inquietante che fa tornare alla mente l’incompiutezza che rendeva intriganti certi finali di Ai Confini della Realtà.

Solo il tempo ci dirà se Stranger Things sarà ricordato come un piccolo cult, ma l’esperimento dei Duffer Brothers può dirsi riuscito: hanno toccato le corde della nostalgia in modo dolce ed armonioso, dando vita ad una melodia che è arrivata dritta al cuore degli spettatori. Intanto, nell’attesa del rinnovo per un’altra stagione – che appare pressoché scontato – Stranger Things incassa l’approvazione di un certo Stephen King (anche se a lui è piaciuta persino Winona Ryder…)

Io vi saluto ricordandovi di fare un salto sulla mia pagina Facebook. Se però siete tra quelli che guardano Wayward Pines, allora no. Non siete graditi.

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