Sense8: recensione – riflessione

Sense8 è una serie originale targata Netflix, uscita negli States il 5 giugno 2015 e arrivata in Italia in concomitanza con l’approdo della piattaforma, il 22 ottobre. 

Per ora, è composta da una singola stagione (la seconda è già stata confermata. NdA) di 12 episodi, di 50 minuti l’uno. L’ho finita due giorni fa, ma già dalle prime puntate era diventata una delle mie serie preferite, se non “LA” preferita, e volevo condividere con voi le impressioni che mi ha provocato recensendola, ma anche riflettendo su cosa rappresenti una serie così in un periodo come il nostro. 

Trama
Otto persone da otto parti del mondo differenti, si ritrovano collegate telepaticamente. Insieme dovranno riuscire a superare le difficoltà individuali e fronteggiare una minaccia che li coinvolgerà tutti.

Recensione

La prima cosa che salta all’occhio di Sense8, trattandosi di un prodotto (audio)visivo, è la fotografia: portata allo stato dell’arte, riesce a esaltare le bellissime location (Chicago, Londra, San Francisco, Berlino, Mumbai, Seoul, Città del Messico, Nairobi, Reykjavik) fino a farle sembrare tangibili. In Sense8 la fotografia riesce, forse più di ogni altra cosa, a portare lo spettatore dentro la storia. Per il versante audio invece le musiche sono fortemente evocative, riuscendo a variare dal tema principale per creare esaltazione, commozione e tensione, pur non essendo tanto impressionanti quanto la fotografia.

La sceneggiatura, quando relativa alla gestione dei personaggi (delineamento della personalità, dialoghi, ecc.) è quanto di meglio si possa avere da una serie che aspira a parlare di empatia e diversità, non approfondendo del tutto i discorsi iniziati, ma lasciando allo spettatore il compito di riflettere su quanto appena visto e sentito. Fin da subito ci si sente legati agli otto protagonisti (anche con vicende personali che non non suscitano tutte lo stesso livello di interesse), estremamente  umani e cedibili. A questo proposito va detto che gli attori sono totalmente nella parte e facilitano il legame con il personaggio, anche solo per come appaiono.

Per quanto concerne l’aspetto sci-fi, gli autori hanno deciso di non scaricare tutta la pesante sezione di exposition in una volta sola, hanno preferito spiegare le “regole del gioco” volta per volta, creando così una narrazione più fluida (con l’alternanza storyline principale/vicende personali dei protagonisti), una soluzione questa che riesce a tenere viva l’attenzione generando una certa curiosità. L’unica cosa che per alcuni può far vacillare questa costruzione (non nel mio caso) è la gestione dei tempi, la capacità di saper alternare in modo giusto le varie storie.

Il montaggio, diversamente dalla maggior parte di film o serie tv, è fondamentale, basilare nella narrazione e nell’esposizione nella storia. Non solo l’alternanza delle varie vicende, ma, soprattutto, per i momenti di “visiting” e “sharing“, che conoscerete solo guardando la serie. A questo proposito bisogna dire che non si poteva fare lavoro migliore.
Altro aspetto tecnico su cui non c’è proprio nulla da ridire sono gli effetti speciali, il tutto è coronato da una regia fantastica, che si alterna tra spettacolari riprese aeree, toccanti momenti intimi e scene d’azione concitate e mai confusionarie.

Sense8 rimane un’opera che, al di là del giudizio sulla qualità della resa visiva e narrativa (per la quale non esito a chiamarlo capolavoro), va indubbiamente giudicata come una serie molto umana (almeno negli intenti): un inno all’empatia come elemento caratterizzante della razza umana, all’aiutarsi a vicenda, alla diversità. 

Riflessione

Sense8 è stata ideata dai fratelli Wachowski e dal fumettista J. Michael Straczynski, non nuovo ad esperienze come sceneggiatore per cinema e TV. I primi due sono i creatori della famosissima trilogia di Matrix, ma la loro serie si muove più sulla falsariga di Cloud Atlas, scritto e diretto dai due insieme a Tom Tykwer, che qui figura come regista, sceneggiatore e compositore. Quest’anno è uscita la loro ultima fatica cinematografica: Jupiter Ascending. Un flop sia di critica che di pubblico. Netflix ha permesso ai due autori di esprimersi di nuovo, di lasciar correre ancora quella linfa creativa che sembravano aver perso. Ovviamente il merito non è solo loro, ma è difficile non notare come il panorama cinematografico e televisivo stia cambiando drasticamente, nel quale i due media si stiano in tutto e per tutto scambiando i ruoli, nell’ambito dei talenti e delle scelte narrative. Breaking Bad, con tutto il suo apparato artistico fatto da performance e sceneggiature perfette, aveva già dimostrato che la tv non ha nulla da temere dal mezzo cinematografico, che entrambi possono raggiungere pari dignità artistica. Ma Sense8 è il caso più eclatante di passaggio di autori affermatissimi nel mondo del cinema che passano dall’altra parte dopo una grande delusione. Già quest’anno l’attrice Kirsten Dunst (la Mary Jane di Raimi, per intenderci) aveva affermato che, come artista, si trovava molto meglio in una serie di quanto non si trovasse da anni nei film.
Sembra ormai che la tv, e in particolare piattaforme come Netflix, siano diventate la nuova casa per chiunque aspiri a diventare un film maker: d’altronde è pienamente comprensibile che, a fronte di un budget ridotto e aspettative d’incassi molto più piccoli rispetto a quelle di un film, agli autori di serie sia concessa più libertà creativa.
Molto probabilmente non a caso, questa ascesa del piccolo schermo arriva contemporaneamente alla tanto chiaccherata “crisi delle idee di Hollywood“.
A sottolineare questa inversione c’è anche lo “scambio” delle scelte narrative: anche grazie a Netflix, si stanno diffondendo sempre di più serie in cui l’aspetto episodico è completamente ignorato a favore di una narrazione più vicina, se non uguale, al linguaggio cinematografico (quindi più che “serie tv”, Sense8 è più definibile come “film di 10 ore”). Al cinema, al contrario, si diffondono sempre di più le saghe (complice, inutile negarlo, anche la “crisi delle idee” che porta con sé vari prequel e sequel). Principale motore di questo cambiamento è la Marvel, con il suo modello di universo condiviso (modello che più case di produzione stanno seguendo) dove è sempre più difficile orientarsi guardando un film senza aver visto gli altri che lo precedono, ma il fenomeno ha origini precedenti se si pensa alla denominazione in “Episodi” che Lucas ha voluto dare alle sue Guerre Stellari.

Cosa ne pensate? 

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