Da Via col vento a Community: ipocrisia made in USA

La morte di George Floyd, afroamericano soffocato di fronte alla telecamere sotto il ginocchio di un poliziotto bianco, ha riportato con veemenza la questione razziale statunitense al centro del dibattito politico e sociale. Come spesso capita, a un’ondata di necessaria presa di coscienza e di mobilitazione generale si affiancano anche gesti di vuota retorica. Cartina al tornasole delle due facce dell’America è la colossale macchina dell’intrattenimento USA: da un lato efficace mezzo di denuncia, dall’altro ipocrita rincorsa al politicamente corretto a tutti i costi. 

Ad aprire le danze è stato il caso di Via col vento. Il kolossal di Victor Fleming è stato rimosso temporaneamente da catalogo HBO Max, salvo poi tornare disponibile con un disclaimer in cui si dice che “il film nega gli orrori della schiavitù”. Un’operazione che è il simbolo dell’american way paracula di nascondere la polvere sotto al tappeto. 

É vero: Via col vento non mostra gli orrori della schiavitù ma inventa una narrativa edulcorata in cui le persone di colore non sono vittime bensì macchiettistici domestici bidimensionali iper-caratterizzati. Tuttavia non si può pretendere che un film di 80 anni fa abbia la ferocia di Django Unchained o la lucidità di 12 anni schiavo, e pensare di spiegarlo col cucchiaino al pubblico – per di più a quello americano – è un esercizio di pura retorica. Quando Via col vento uscì nelle sale, Hattie McDaniel, prima attrice afroamericana a vincere un Oscar per il celebre ruolo di Mami, non potè assistere alla prima del film in un cinema di Atlanta per le leggi di segregazione razziale ancora vigenti negli anni Trenta. Una attrice premiata dall’Academy non poteva entrare in sala, un cortocircuito mica da poco. Come si può pensare che un film concepito in un periodo del genere che raccontava la guerra di secessione filtrando la narrazione attraverso gli occhi di Rossella O’Hara, una figlia di papà sudista sciocca e capricciosa, possa essere realistico?

Se guardando il film di Fleming non si ha la sensibilità per percepirne il background a cosa può servire uno spiegone storico a mo’ di prefazione? Dire in premessa a uno spettatore “ehi, Via col vento è del 1939 e, sai, negli Stati Uniti fino agli anni cinquanta esistevano leggi che stabilivano che se eri nero e sul bus ti sedevi nel posto dei bianchi finivi in galera” non modifica la percezione che si può avere di un film tristemente figlio del suo tempo.

In questo clima di revisione, guardandosi attraverso lo specchio delle loro tv, gli americani hanno poi scoperto che la blackface – la pratica di dipingersi il volto di nero per imitare, parodiandole, delle persone di colore – è un insulto razzista. E in effetti lo è. Quello che è incredibile è che se ne siano accorti solo oggi, visto che lo facevano regolarmente fino all’altro ieri. É bene che ci sia una presa di coscienza in tal senso, ma oggi cancellare episodi di vecchie serie in cui la frittata è stata fatta che senso può mai avere?

Netflix ha eliminato dal catalogo 3 serie inglesi di una quindicina di anni fa (Little Britain, Come Fly With Me, The Mighty Bush) in cui si faceva ricorso alla blackface. Per lo stesso motivo un episodio di The Office USA è stato editato e Hulu ha rimosso 3 episodi di Scrubs

Nell’occhio del ciclone è finito anche Jimmy Fallon, celebre host del Tonight Show, perché in un episodio del Saturday Night Live del 2000 si esibì in blackface per fare il verso a Chris Rock. Fallon si è scusato per quel vecchio sketch del SNL e, per una settimana, ha ospitato esponenti politici, attivisti e comici afroamericani nella versione domestica-COVID del suo Tonight Show e lo ha fatto in maniera un tantino goffa e imbarazzata (basta dare un’occhiata al video qui sotto). Naturalmente alcuni hanno sottolineato come l’improvviso interesse del Tonight Show e di altri analoghi programmi di intrattenimento nei loro confronti si accenda solo quando la questione razziale, ciclicamente, torna ad essere trend topic.

Persino a Tropic Thunder, film che è una colossale parodia di tutta l’industria di Hollywood (dal product placement, alla mascolinità tossica dei produttori) è stato appioppato un disclaimer da Sky UK per via della blackface. Blackface che però aveva un evidente intento satirico: Robert Downey Jr interpretava un biondissimo attore australiano che, per una parte in un war movie, si cambiava i connotati trasformandosi in un afroamericano, un modo per sottolineare l’uso stereotipato di personaggi di colore al cinema. Un ruolo che, non dimentichiamolo, era valso a Downey Jr persino una nomination agli Oscar nel 2009 (non nel 1939).

Il disclaimer in questione – che recita “Questo film ha atteggiamenti, linguaggio e rappresentazioni culturali ormai superati che potrebbero risultare offensivi oggi” – è stato applicato, pensate un po’, anche al remake live action de Il libro della giungla. Un film del 2016. Come cambia in fretta la sensibilità…

Ma la perla dell’assurdità si è raggiunta nelle ultime ore quando Netflix ha rimosso dal catalogo – anche da quello italiano – uno dei più famosi episodi di Community: Advanced Dungeons and Dragons (ep. 2×14). Episodio in cui, durante una partita al celebre gioco di ruolo, il señor Chang si traveste da elfo oscuro, una creatura tipica dell’immaginario fantasy che nulla ha a che vedere con gli afroamericani. Per di più l’episodio in questione trattava, seppur con l’ironia tipica della serie creata da Dan Harmon, la tematica dell’emarginazione e del bullismo attraverso il personaggio di Tondo Neil che, grazie a D&D, sconfiggeva timidezza e paure. Di questo passo dove arriveremo? Verrà ritoccato anche l’Episodio I di Star Wars ritenendo offensivo Darth Maul?

Negare il bigottismo e la superficialità della fiction del passato, destinandola all’oblio, appioppando bollini o persino censure demenziali come nel caso del summenzionato episodio di Community non ha alcuna utilità. Quel che è importante, invece, è che la sensibilità della fiction di oggi riesca a dare un quadro lucido e critico della società che viviamo. È il caso di quello che è successo, ad esempio, con la serie tv Watchmen che alcuni mesi fa aveva fornito una profetica ed incredibilmente accurata istantanea di quel che sarebbe accaduto in questo assurdo 2020.

Andata in onda sulla HBO alla fine del 2019, Watchmen è un sequel – inventato di sana pianta dallo sceneggiatore Damon Lindelof – dell’omonimo fumetto di Alan Moore del 1986 che fu inserito da Time Magazine nella lista dei 100 migliori romanzi in lingua inglese del Novecento. 

Oltre al ben noto lavoro di decostruzione del mito del supereroi, quel che veniva fuori dal fumetto di Moore era una quadro parecchio accurato delle tensioni sociali che caratterizzavano gli anni Ottanta, dallo spauracchio della guerra fredda alla paranoia della fine.
Lindelof ha pensato che il modo migliore per attualizzare il lavoro di Moore fosse spostare la lente d’ingrandimento sul principale problema sociale dell’America di oggi: il razzismo. Così ha messo al centro della sua serie tv un’eroina afroamericana, Angela Abar interpretata dal premio Oscar Regina King, e l’ha calata in una lotta contro un movimento di suprematisti bianchi che agisce nell’ombra sfruttando la politica e le forze dell’ordine. Una storia di razzismo istituzionale che – mantenendo fede alla plotline dell’opera originale ‘chi sorveglia i sorveglianti?’ – è ambientata a Tulsa ed affonda le sue radici nei disordini razziali realmente avvenuti nel 1921 nella cittadina dell’Oklahoma.

Watchmen è la conferma che alcune produzioni cinematografiche e televisive statunitensi di oggi hanno sviluppato una voce che vuole arrivare alla radici di un conflitto razziale irrisolto e stimolare un dibattito. Una presa di coscienza che si contrappone all’inutilità di rinnegare quello che in passato era considerato erroneamente “normale”. L’esasperazione della cultura della cancellazione che vorrebbe condannare alla damnatio memoriae opere figlie di una società che non aveva messo a fuoco i suoi problemi è un po’ come far sparire dall’album di famiglia quelle vecchie foto in cui siamo venuti male o avevamo un taglio di capelli fuori moda con la falsa illusione che, guardandoci allo specchio oggi, ci sentiremo delle persone migliori.

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