TWR come usare il Joker (e Scorsese) per raccontare l’odio e l’alienazione

Partiamo da lontano. Il progetto per un film su Joker risale al 2016 quando Todd Phillips, già regista delle trilogia di Una notte la leoni, propone alla Warner un film scollegato dalle altre pellicole sui supereroi DC comics. Warner insegue il modello Marvel arrancando nella volontà di creare il suo macromondo cinematografico fatto di tutine che si uniscono per combattere tiranni spaziali. L’accoglienza controversa di Batman V Superman e il sostanziale flop di Justice League ridimensionano il progetto dell’universo condiviso facendo tornare la Warner sui suoi passi e – con coraggio, va detto – la proposta di Phillips viene accettata.
In un primo momento viene coinvolto come produttore Martin Scorsese, segno inequivocabile di voler realizzare un film drammatico vero e proprio e non un pop-corn movie con un personaggio dei fumetti. Mentre la felice scelta di casting (voluta da Phillips) è quella di Joaquin Phoenix, che in tempi relativamente recenti aveva rifiutato il ruolo di Doctor Strange nei film Marvel proprio perché non interessato a vincoli pluriennali e pellicole crossover. 
Scorsese poi lascia la produzione per sopraggiunti impegni ma, in realtà, la sua eredità resta la principale fonte di ispirazione per il film. Joker, infatti, è sostanzialmente un remake di Re per una notte con degli innesti di Taxi Driver, entrambi film di Scorsese con Robert DeNiro a fare da protagonista. Joker è un film totalmente derivativo e di Re per una notte non riprende solo gran parte della trama e le coordinate di partenza del protagonista (un aspirante comico troppo avanti con gli anni che vive ancora con la mamma) ma anche parecchi espedienti come i sogni ad occhi aperti. Si tratta tuttavia di un citazionismo onesto e dichiarato, e far passare DeNiro dall’altra parte della barricata, affidandogli il ruolo del comico da prima serata che in Re per una notte fu di Jerry Lewis, è una chiara dichiarazione d’intenti.

C’è però una differenza bella grossa, Travis Bickle e Ruper Pupkin, i personaggi dei due super classici dell’alienazione firmati da Scorsese, sono uomini senza alibi e, per questo, suscitano ben poca empatia. Taxi Driver e Re per una notte introducono i rispettivi protagonisti in medias res, già contaminati da manie e ossessioni, suscitando profondo fastidio per i loro comportamenti molesti e la loro assoluta incapacità di rendersi conto di essere fuori posto. Invece Arthur Fleck, il clown di strada che diventerà Joker, di alibi ne ha parecchi perché ha tanti motivi per odiare. Arthur assume un’insana autoconsapevolezza della sua follia e, ai nostri occhi, sa benissimo di essere fuori posto. Lui nel mondo non vuole entrarci e la malattia, che lo rende incapace di inserirsi nel tessuto sociale, lo porterà a diventare uno di quegli “uomini vogliono solo vedere bruciare il mondo”, celebre definizione del Joker nolaniano per bocca di Alfred. A proposito, fare paragoni col Joker di Ledger – “meglio questo, no meglio quello” – è del tutto inutile, sono due declinazioni molto diverse dello stesso personaggio. Mi sento solo di dire che questo Joker di Phoenix, forse anche per l’assenza di Batman, è un uomo tutto sbagliato, quello di Ledger, per quanto eccellente per caratterizzazione ed interpretazione, era il villain magnificamente teatrale di un fumetto. 

I punti focali del film di Phillips sono due. Il primo è il rigetto della società verso chi è affetto da disturbi psichici (concetto esplicitato molto chiaramente dalla barzelletta secondo cui il lato peggiore della malattia mentale è che la gente si aspetta che ti comporti come se non l’avessi). Il secondo punto sono i media trasformati in facili strumenti per veicolare la violenza, questo grazie all’odio, un sentimento “semplice” che, con drammatica facilità, diventa virale. Una tematica molto attuale.
Soprattutto per questo motivo, anche se trionfatore a Venezia e ben accolto dalla critica europea, Joker sta avendo giudizi parecchio divisivi dalla critica USA. Significativa, in tal senso, la recensione di Entertainment Weekly di cui vi riporto un estratto:
“Joker è arte o è orribile e vuoto nichilismo? Forse la domanda non importa; potrebbe essere entrambi. Ma la verità è che l’intrattenimento non può esistere nel vuoto, e un film che martella sempre lo stesso messaggio – che la vita è cattiva e breve, che a nessuno importa, che potresti anche bruciare tutto – sembra troppo inconsistente, e francamente troppo spaventoso per separarlo dagli atti di violenza reale commessi in America quasi ogni giorno da giovani come l’Arthur Fleck di Joaquin Phoenix.”
Un film spaventosamente brutto e inutile perché metafora di certi atti di violenza reale? È inspiegabile il cortocircuito di pretendere una pellicola politicamente corretta quando, se visto nella giusta prospettiva, il Joker di Phillips fotografa alcuni scoraggianti aspetti della società di oggi e non è assolutamente un endorsement alla rivolta armata. Evidentemente se tocchi questo nervo scoperto in America, una nazione in cui ogni cinque minuti un pazzo fa una strage in un luogo pubblico, devi limitarti a demonizzare solo il protagonista evitando di criticare anche il contesto perché altrimenti, agli occhi di qualcuno, gli stai fornendo una giustificazione.

Un’altra frangia di contestatori arriva dai siti a tema fumetti, non è un caso che portali come Comic Book Resources o Newsarama abbiano stroncato Joker. Una piaga, quella del miope integralismo nerd che vuole le sue icone sempre uguali a se stesse, che non necessita di ulteriore commento. Oltre ad aver calato questo Joker in un modello di società pseudo-realistica primi anni ‘80 in cui Thomas Wayne può essere facilmente assimilato a Reagan (non a caso Presidente dal 1981, stesso anno in cui è ambientato il film), la storia di Phillips è molto più contestualizzata di quanto mi sarei aspettato nel mito batmaniano e questa Gotham, che ricorda la disperata New York dei sogni infranti di The Deuce, è la più evocativa versione della città di Batman assieme a quella, pur molto diversa, di Tim Burton. 

Ci sono tante altre cose buone in questo Joker, prima fra tutte l’idea di attribuire al protagonista una non meglio precisata patologia che lo fa scoppiare in incontrollabili crisi di riso, una specie di sindrome di Tourette sghignazzante, e qui Joaquin Phoenix si rivela mostruosamente bravo. Quando piange, quando ride, quando balla, quando corre, quando si contorce, quando parla sussurrando, Phoenix è magnetico e dannatamente efficace nella parte e, inoltre, non è incappato nell’errore di replicare l’interpretazione di The Master, film di P.T. Anderson del 2012 in cui interpretava un reduce con disturbi del comportamento.

Il plauso va diviso con Todd Phillips che il film lo ha scritto (assieme a Scott Silver) e diretto benissimo, confermando il trend attuale che vede tanti cineasti cresciuti con il cinema comico demenziale tirar fuori alcune delle migliori e più originali pellicole della Hollywood recente, come Adam McKay che è passato da Anchorman e Ricky Bobby a La grande scommessa e Vice, o Peter Farrely, regista e sceneggiatore di Scemo & più scemo e Tutti pazzi per Mary, che ha portato l’emozionante Green Book a vincere tre Oscar.

Nel complesso Joker è un film strutturalmente fantastico in cui una regia armoniosa, una fotografia evocativa e una colonna sonora molto ben dosata esaltano un interprete che nel panorama attuale ha davvero pochissimi rivali, a maggior ragione ora che Daniel Day Lewis si è chiamato fuori dalle scene.  

Io vi saluto con il link alla mia pagina Facebook e vi aspetto lì per commentare il film.

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