Pacific Rim – recensione

Ci siamo, l’attesa è finita e, finalmente, Pacific Rim non è solo quel trailer visto e rivisto tre volte al giorno.

Sapete, la mia generazione, quella degli anni ’90, non ha ancora avuto e forse non lo avrà mai un film di riferimento; un baluardo mitologico da usare come pretesto per distruggere o consacrare un filone cinematografico. Qualcosa che influenza gli anni a venire. E la mia vita, anche.
L’unico è stato Matrix ma, anche in questo caso, si tratta di una rivisitazione in chiave moderna e con più appeal commerciale di qualcosa che già esisteva. Vedi: Dark City, Paprika, Ghost in the Shell. E poi a sua volta ha questa pellicola generato un sotto mondo con videogiochi, anime e film spirituali.
Sostanzialmente abbiamo dovuto depredare i decenni precedenti dei loro classici: Guerre Stellari, Terminator, Top Gun, Indiana Jones. Con l’unico nostro manifesto, Donnie Darko e Dio ce ne scampi, viviamo di vecchie memorie, sempre attualissime per carità, ma senza una vera e propria connotazione temporale.

Siamo i figli e non i genitori di, e credo che d’ora in avanti genereremo prole solo in provetta.
Senza anima e amore.

Poi il progetto Pacific Rim.
Robot Vs. Alieni.
Pensi: no, un nuovo Transformes, no.
Ma: Guillermo Del Toro alla sceneggiatura e regia.
Mmh, interessante.
Primo Trailer: non hai più la mascella.
Lo rivedi: chiara e palese strizzatina d’occhio a Evangelion.
Ti chiedi: cosa sta succedendo.

11 LUGLIO: rinunci a tutto perchè non stai più nella pelle. Il piccolo Pascoli interiore che urla “siamo arrivati? siamo arrivati? siamo arrivati? siamo arrivati?”

PACIFIC RIM [Recensione]

Dopo un prologo eccellente e che scorre via in un incastro di immagini e didascalie intelligente, il film entra nel vivo.

La minaccia che scuote la terra sono i Kaiju, alieni che giungono da un portale inter dimensionale nell’oceano. Per combatterli vengono studiati e costruiti dalle menti più brillanti del globo dei Robot giganti, gli Jagaer (cacciatori in tedesco), pilotati da due ranger, soldati con un collegamento neurale che mescolando i loro ricordi in un “drift” riescono ad animare questi colossi.

La pellicola non si limita ad essere un grande giocattolone; a quanto pare non ha nemmeno avuto gli stessi costi di produzione, esorbitanti, di un Transformers. Ma ha un corpo, un’anima, ti fa provare emozioni. Non di quelle necessarie e quasi obbligate delle solite sceneggiature da blockbuster, qui si prova empatia per la distruzione dei robot, ad esempio. Ci si gasa, si salta, si combatte insieme a loro. Come quando da bambino mimi le gestualità dei robot giganti contro i loro acerrimi nemici: Zabi, l’imperatore delle tenebre, gli Angeli. Qualcosa che finalmente funziona nella plausibilità creata. I dettagli fanno la differenza; e così potrete vedere graffi, scintillii, leggi della fisica rispettate nella loro verosimiglianza da film. È calibrato, ben strutturato ed ha un ritmo da tachicardia.
Non si nutre di uno script innovativo, sarebbe stato un po’ stupido pensare il contrario. Ma la realizzazione degli stereotipi è divertente. Ha quel grottesco e quella suggestione di HellBoy II, del Labirinto del Fauno (capolavoro di Del Toro), che immerge lo spettatore nella magica visionarietà del regista.

Guillermo Del Toro si mostra un persona di grande cultura e raffinatezza. Prende per mano il mito giapponese, lo colora della sua visione artistica e lo lancia nel suo mondo: quello occidentale non americano, che, attenzione, è molto diverso. Non ha alcun imperialismo e presunzione di imporre e depauperare della filosofia orientale del mondo dei Mecha e dei real robot.
Perchè è la sua infanzia, la sua crescita, il suo più grande omaggio. Il robot, si vede, lo ha coccolato.
E nessun bambino vorrebbe mai distruggere chi lo ha protetto, ammaccarlo per uno scontro con delle micro machine forse, ma questo è un altro discorso.
Il reparto tecnico è mostruoso. I concept sono validi, più che validi, e disegnati con i più simpatici clichè; potrete notare la diversità tra quelli della squadra giapponese, quelli russi a quelli americani e non solo, ci sono anche gli australiani. I combattimenti, poi, risultano essere emozionati, curati nei minimi particolari e con scene che avranno modo di insegnare ed ispirare i lavori successivi.
La colonna sonora è splendida, riesce ad immergerti nella scena (ascoltatela su Spotify).

Perchè si crei un mito ci vuole la consapevolezza del mito stesso. Guerre Stellari lo è perchè ha imposto la sua visione d’insieme, mescolando e superando la distinzione di genere, e ha dettato legge sulla fantascienza (ma non solo, vedi: Toy Story 2, ad esempio) per gli anni, i decenni successivi e chissà fin quanto potrà continuare. Ma per farlo ha preso atto della sua portata, del mondo che stava cambiando, con un modo autoreferenziale di mettere su scena. Come se già lo sapesse, prima ancora di essere visionato. Pacific Rim è stato paragonato a Star Wars. E con questo dato. Ma, per me, non può esserlo: perchè parte da uno scenario già precostituito. Non dico che non influenzerà ma non lo farà da mito; da omaggio, da prodotto di nicchia, sì, però.

Come quando si scelgono gli amici con cui sfogarsi e ridere e piangere.
E scusatemi se è poco.

marcodemitri®

Link blog: ilmondoinfrantumi

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