TWR la (psico)analisi di Spider-Man Homecoming: Il ballo del reboottante

Spider-Man è alla ribalta cinematografica da ormai 15 anni e, in barba alla sovraesposizione, in questo lasso di tempo sono usciti ben 6 film che lo vedono protagonista.
In principio, il Verbo era Sam Raimi che, in un periodo in cui al cinema si vedevano soltanto i primi vagiti degli X-Men della Fox, aveva catturato tutti con il suo Spider-Man interpretato da Tobey ‘Fracchia’ Maguire. Raimi concesse un gran bel bis, coadiuvato da un Alfred Molina in forma smagliante nei panni di Otto Octavius. Ma proprio sul più bello, cioè al debutto di Venom, qualcosa andò tremendamente storto: Spider-Man 3 fu un accozzaglia di idee tutta sballata. C’era Peter che, per colpa del simbionte, diventava un emo ballerino coi capelli viola, c’era una inebetita Gwen Stacy interpretata da Bryce Dallas Howard (per gli amici Corinna), c’erano trentordici villain ed una serie di subplot talmente slegati che nemmeno in un film dei Transformers. Il capitombolo fu così fragoroso da annacquare il ricordo dei precedenti capitoli ed interrompere la saga di Raimi.


 – Com’è umano lei –

Poi fu il turno di Marc Webb che scritturò Andrew ‘Giraffa’ Garfield e fece un film un po’ apatico ma, tutto sommato, sufficiente. Quelli della Sony – siccome l’ottimismo è il profumo della vita – annunciarono The Amazing Spider-Man 2, 3, 4, lo spin-off sui Sinistri Sei ed una soap opera sulla zia May. Ma, evidentemente, i lungimiranti tipi della Sony erano stati fin troppo speranzosi: The Amazing Spider-Man 2 era da cassonetto dell’umido: un Dawson’s Creek in salsa supereroistica con i dialoghi di Fabio Volo. Un film brutto incentrato sul rapporto zuccheromieloso tra Peter e Gwen attorno a cui ruotavano dei villains demenziali (Elektro, Harry Osborn ed il non pervenuto Rhino) 


Alla luce di quanto detto, il principale dubbio su questo ennesimo reboot cinematografico era: è possibile raccontare Spider-Man con una nuova chiave di lettura che non sia il solito zio Ben muore —> Peter sacrifica la figa sull’altare de La Responsabilità™?
Sì, è possibile. Marvel Studios e Sony, con Homecoming, hanno tirato fuori dal cilindro uno Spider-Man tutto nuovo (anche se il pilu continua a soccombere sotto l’insostenibile peso de La Responsabilità™).

Merito del riuscito refresh di questo ennesimo Spidey è attribuibile all’azzeccata scelta del nuovo Peter Parker. Tom Holland è molto ben calato nella parte, ha un’ottima alchimia con Robert Downey Jr (si narra che il provino fatto con RDJ per Civil War fu determinante nella scelta) ed ha un passato da ballerino/acrobata (per anni ha recitato nel musical Billy Elliot). Un aspetto quest’ultimo da non sottovalutare considerate le movenze dell’eroe che si è ritrovato ad interpretare. Guardatelo qua che fa Rihanna meglio di Rihanna:

Inoltre uno dei più grossi equivoci dei due precedenti Peter Parker era che, pur essendo dei liceali, erano interpretati da un all’epoca 27enne (Maguire) ed un all’epoca 30enne (Garfield), mentre Holland aveva 18 anni quando due anni fa fu scritturato per Civil War. Questo giova alla credibilità del personaggio, anche perché Homecoming è un teen movie a tutti gli effetti ma, fortunatamente, l’ambientazione scolastica e la atmosfere adolescenziali non sono permeate da quegli irritanti toni giovanilistici un tanto al chilo che spesso hanno gli attuali film teen fatti di regazzini che parlano di Facebook, vanno in giro con le cuffie Beats e postano selfie su Instagram.

In quest’ottica, un discreto spazio è riservato al Breakfast Club di Peter, composto dalla spalla comica (Ned il nerd), la bonazza/interesse amoroso (Liz), quello col culo pieno (Flash) e la tipa anticonformista (Michelle). A loro si affiancano tantissimi volti noti a chi mastica serie TV: c’è Nacho di Better Call Saul, Mike il killer di colore di Fargo 2 e, rullo di tamburi, Gilfoyle di Silicon Valley nei panni del prof di Peter. Tra loro spicca Donald Glover di Community ed Atlanta nel ruolo di “un certo” Aaron Davis (enorme easter egg per i lettori, chissà che in futuro…).
Ma, ovviamente, i pezzi grossi sono quegli altri 3:

1) La Zilf. May, la zia di Peter non più ottuagenaria sosia dello zio Tibia ma milf, interpretata da quel gran pezzo della Marisona Tomei di cui tutti ci auguriamo uno spin-off in cui, per sbarcare il lunario, la zia di giorno diventi spogliarellista di notte.

2) L’Avvoltoio. In mano ad un altro attore, probabilmente, Adrian Toomes aka l’Avvoltoio sarebbe stato un altro degli ennesimi villain sfigati mordi e fuggi made in Marvel Studios. Grazie a Michael Keaton, invece, vi augurerete vi rivederlo il più in fretta possibile nel MCU.

3) Iron Man. A differenza di quanto visto nei trailer, il ruolo di Robert Downey Jr è marginale e ben dosato. Tony funziona bene come mentore di Peter e padre putativo di questo Spidey iper-tecnologico. Poi, piaccia o no, è lui l’anima ed il collante dell’universo cinematografico Marvel ed era inevitabile fosse qui per fare gli onori di casa e dare il bentornato a Spider-Man. 

A proposito di quest’ultimo aspetto, è innegabile che il personaggio Spider-Man abbia tratto giovamento dall’ingresso nel Marvel Cinematic Universe, beneficiando delle numerose soluzioni offerte da un affresco narrativo consolidato da dieci anni di film. Cosa che, tra l’altro, ha consentito di presentare Spidey come un eroe sfigato e un po’ pittoresco in un mondo di supersoldati, alieni e divinità. Al tempo stesso, fortunatamente, Homecoming non è rimasto schiacciato dal MCU diventando solo un altro episodio di quella grande serie TV pompata di steroidi che sono le avventure cinematografiche degli Avengers. Insomma è un film con una sua logica e personalità, non l’ennesima giuntura per things to come (vedi alla voce Age of Ultron).

In conclusione il lavoro del regista John Watts, balzato agli onori della cronaca per Cop Car (film con Kevin Bacon inspiegabilmente apprezzato dalla critica), è piacevole e spassoso anche se manca di quel guizzo che gli avrebbe potuto consentire la promozione col massimo dei voti. Anche perché per quanto Watts si riveli perfettamente a suo agio sia nello sviluppo della dimensione scolastica e del training di Peter che nella gestione del climax del film, non è stato altrettanto bravo con le mazzate che chiudono la pellicola. Trattandosi di un film di tutine i pugni sono importanti e quelli del finale di Homecoming sono troppo confusionari e mancano della dovuta epica. In ogni caso, pur con qualche difettuccio, Homecoming non è il solito film di supereroi che ti scordi dopo mezz’ora che lo hai visto. É un film che ti lascia qualcosa, e quel qualcosa sono essenzialmente due protagonisti – Peter e Toomes – molto ben scritti e che danno vita ad una dicotomia eroe-villain come non se ne vedevano da parecchio tempo in un film di tutine. 


– Danzi mai con l’avvoltoio nel pallido plenilunio? –

Insomma, la cura ricostituente dei Marvel Studios ha rivitalizzato un personaggio che non ne imbroccava una al cinema dal lontano 2004. Con l’augurio che Sony, visti i buoni riscontri da parte della critica (e, soprattutto, del dio box office), continui le avventure cinematografiche di Peter Parker a braccetto con Marvel. Perché il film di Venom con Tom Hardy in arrivo il prossimo anno (e che sarà 100% Sony), a ragion veduta fa già tremare i polsi a molti appassionati. 

Io vi saluto e vi aspetto sulla mia pagina Facebook. L’inverno sta arrivando…

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2 commenti su “TWR la (psico)analisi di Spider-Man Homecoming: Il ballo del reboottante

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