TWR la (psico)analisi di The OA: tutto il bello di una delusione

Da pochi giorni è disponibile su Netflix The OA, una misteriosa miniserie che è stata mantenuta pressoché top secret fino a pochi giorni prima della messa in onda. Di The OA, infatti, non si sapeva quasi nulla: mesi fa era stato annunciato che il colosso dello streaming aveva raggiunto un accordo con Brit Marling (che è non solo la protagonista Prairie ma anche la sceneggiatrice della serie) e poi più nulla fino alla release del primo ed unico trailer appena una settimana prima che gli 8 episodi fossero resi disponibili online. A dirigere e co-sceneggiare l’intera serie Zal Batmanglij che aveva diretto proprio la Marling in un paio di film presentati negli scorsi anni al Sundance Film Festival.

Dal trailer, volutamente, si capiva ben poco della tematica portante di The OA, si lasciava solo intuire fosse un thriller sci-fi in cui una ragazza non vedente scomparsa 7 anni prima veniva ritrovata dopo aver riacquistato il dono della vista per chissà quale mistero misteriosamente misterioso. Mostrando, tra le altre cose, uno strano macchinario per annegare le cavie, tale e quale a quello del video di No Surprises dei Radiohead.


– No alarms and no surprises please…-

In realtà è difficile, per non dire impossibile, parlare della serie senza fare spoiler, quindi sarò vago limitandomi a dire che in principio il setting del primo episodio sembra andare nella direzione del trailer mentre, quando dopo 45 minuti partono i titoli di testa (sì, avete letto bene: i titoli di testa dopo 45 minuti, e sono pure un bel vedere), la serie prende tutt’altra direzione. Poi con il secondo episodio si vira in un’altra direzione e via così fino ad assestarsi – intorno al quarto episodio – sulla tematica portante: un misticismo new age che per certi versi coinvolge e per altri desta parecchie perplessità. 
A convincere di The OA, sono le atmosfere da cinema indie, l’alienante provincia americana in cui si svolge “il presente” della serie ed il fatto che, in buona sostanza, è qualcosa di radicalmente inedito per l’affollatissimo panorama seriale odierno. Tuttavia è una serie che necessità che lo spettatore sia cintura nera di sospensione dell’incredulità, in questo caso vi coinvolgerà per larghi tratti portandovi fino a quello che – a mio avviso – è il vero punto dolente della serie: il finale. Sì, perché una serie come questa sull’epilogo si gioca tutto, proprio tutto. Con un finale efficace e coerente sarebbe stata una gran serie e invece il giudizio complessivo è fortemente penalizzato da un finale sbagliato per troppi motivi. C’è un buon plot twist nell’ultimo quarto d’ora, seguito però da un deus ex machina che porta ad un climax senza senso che, per di più, non chiarisce alcunché su quanto accaduto nei 7 episodi precedenti e no, non è un finale aperto, quello avrebbe anche funzionato. L’epilogo di The OA è furbo nell’accezione negativa del termine, grottesco e nonsense nello sviluppo e si presta a qualsiasi interpretazione ridimensionando notevolmente il giudizio più che positivo che invece aveva destato fin lì. La spiritualità che tanta importanza aveva rivestito si riduce a mera coincidenza.
A proposito di spiritualità, una piccola nota a margine: i ricorrenti movimenti sincronizzati, così importanti nell’ossatura dello show, a me hanno fatto pensare sistematicamente ad una sola cosa, la squadra Ginew di Dragon Ball:

Ciononostante va dato atto a The OA di essere una serie di quelle che difficilmente ti dimentichi e che creano un gran chiacchiericcio nell’internet. E questo è indubbiamente un grosso punto a suo favore, anche se il giudizio complessivo resta un gigantesco “BOH!”.

Se anche voi cercate 5 amici per fare dei balli sincronizzati, beh, allora statemi alla larga. Tutti gli altri sono cordialmente invitati sulla mia irresistibile pagina Facebook:

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